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parlare.
Le misi le mani sulle spalle.
«Ricordi cosa ti disse Ollie Boon sul potere», dissi, «... quello che mi scrivesti nella lettera?».
Annuì. Era uscita definitivamente dal torpore, e i suoi occhi erano vivaci anche se non tranquilli.
Aspettava che io continuassi.
«Tesoro, lui aveva ragione», dissi. «A te non piace avere potere sulle persone. E non ti piace
esercitarlo».
Annuì di nuovo, ma non disse nulla. Mi stava osservan-do attentamente e, come sempre, con le trecce
strette tirate indietro e in alto sulla testa, il suo viso esprimeva insieme innocenza e determinazione.
«Ma io penso che questa volta», dissi, «puoi andare contro quella inclinazione e usare il potere che hai».
Di nuovo nessuna risposta.
«So quello che pensi», dissi. «Pensi a G.G. e alle dicerie. Pensi alla telefonata che hai fatto a tua madre».
«E a te, Jeremy», disse lei. «Anche a quello che hanno cercato di farti».
«Lo so. E nessuno ha intenzione di biasimarti, tesoro, qualunque cosa tu decida. Ma quello che ti dico è
che, se lo fai, se semplicemente fai quello che vogliono e lo fai solo per loro - quei due episodi di Volo
Champagne - ebbene, in seguito, per tutta la vita saprai che li hai tirati fuori dai guai e quello che
succede dopo è solo affar loro».
Il suo viso fu percorso da un lieve moto di sorpresa. S'iiluminò visibilmente. Era come guardare il sole
del matti-no a poco a poco riempire una stanza della luce del giorno.
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«Vuoi dire che mi stai dicendo di farlo?», mi domandò. Stupore. Proprio come quando nel furgone ci
stavamo allontanando da San Francisco, solo poche notti prima.
«Sì, credo di sì. Aiutali. E allora veramente potrai girarti sui tacchi e andartene».
Sollevò lo sguardo verso di me interrogativamente, confusa.
«Pensavo che tu non avresti voluto che lo facessi», disse. «Pensavo che non mi avresti mai perdonata,
mai capita».
«Senti, finché non sono tagliati definitivamente i ponti, c'è ancora una possibilità, per noi e per loro, di
uscirne indenni: e allora saremo tutti liberi».
«Oh, Jeremy», sussurrò. Si alzò sulle punte e mi baciò.
E per la prima volta dacché era tornata, credetti di vederla raggiante. L'ansia e la cupezza erano quasi
sparite.
Bonnie aspettava nella limousine scura appena al di qua dei cancelli. E quando uscimmo fuori, vedemmo
che Alex era con lei. Era seduto sul sedile posteriore col finestrino aperto, stava parlando con lei, poi
disse «Scusami, cara», e scese.
Rimasi assieme a Ash mentre Belinda e Marty andava-no verso Bonnie, ma in macchina ci entrò Marty
da solo. Alex intanto era venuto a unirsi a noi e strinse la mano a Ash e disse che Bonnie sembrava
davvero bella, che era una visione, e Ash disse che era sempre un piacere vedere Alex.
Marty ora scendeva dalla macchina. Guardò Belinda, che era rimasta là ad aspettare con le trecce un
po' attorci-gliate che le scendevano giù sulle spalle e la testa leggermente piegata, e allungò la mano per
toccarle il braccio.
«Sali in macchina e parla con lei, tesoro», disse.
Mi sentivo molto teso mentre Belinda entrava in mac-china. Camminai lentamente lungo il sentiero
ghiaioso finché non riuscii a udire la sua voce, sottile e bassa, ma tuttavia distinta.
«Ciao, mamma».
«Ciao, cara».
«Ti senti meglio ora, mamma?».
«Sì, cara, grazie. Sono così contenta che tu stia bene».
«Mamma, andrebbe bene se forse, per appianare le cose, sai, potessi esserci in uno degli spettacoli?».
«Certo, cara, sarebbe bello, proprio davvero bello».
«Sai, solo una piccola parte. Loro parlano di me e Alex Clementine...».
«Certo, cara, qualunque cosa tu voglia».
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Un'altra macchina, una splendida piccola BMW, mise il muso dentro al passaggio. Si fermò sull'altro lato
del cancello aperto, e Marty fece un cenno agli uomini che stavano dentro. Tre di loro scesero. Erano
fotografi, uno con una macchina fotografica all'antica tipo fisarmonica, gli altri due con Nikon e Canon
assicurate al collo da cinghie nere.
Allora Marty chiese a Bonnie e Belinda di uscire dalla limousine. Belinda uscì per prima e poi aiutò
Bonnie, che batté le palpebre e abbassò la testa mentre si esponeva alla luce brillante del sole.
Era una visione, veramente. Finanche il suo pallore era squisito, messo in risalto dal rosso vivido del suo
abito di lana dal taglio molto sofisticato. I suoi capelli erano una massa liscia di seta nera che si curvava
proprio all'altezza delle spalle. Attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali sembrava che guardasse più in
là di dov'eravamo noi, senza vedere, mentre metteva il braccio attorno alla vita di Belinda. Belinda fece
scivolare a sua volta il braccio attorno alla vita di sua madre e inclinò leggermente la testa verso di lei.
Allora i fotografi iniziarono a scattare.
Furono sufficienti meno di tre minuti. Il cortile era immerso in un silenzio di tomba tranne che per gli scatti
delle macchine fotografiche e lo stridulo avvolgimento delle pellicole. Poi gli uomini tornarono nella
BMW, che fece una rapida curva a u e sparì via.
Belinda aiutò la madre a risalire in macchina e si mise di nuovo seduta accanto a lei.
Guardai Marty e realizzai che stavamo assai vicini l'uno all'altro, forse a molto meno di un metro di
distanza.
Lui aveva il braccio appoggiato sul tettuccio della limousine. E mi fissava. Forse lo stava facendo da un
po' di tempo. Mi stava semplicemente guardando in un modo sobrio e distaccato, con i suoi occhi neri
fissi ma piuttosto rilassati.
«Ciao, mamma, è stato bello vederti», disse Belinda.
«Ciao, cara».
Non saprei dire se anche Marty le stesse ascoltando.
Quando Belinda scese dalla macchina, lui continuò a guardarmi e gli vidi fare un impercettibile cenno di
assenso con la testa. Non sapevo cosa volesse dire. Forse neanche volevo saperlo. Ma quando lui
allungò la mano per stringere la mia, cercai di rispondere come meglio potei. Ci guardam-mo,
stringendoci la mano, e quello fu tutto. Non ci dicemmo nulla.
«Grazie, cara», disse a Belinda. E puntando il dito verso di lei. «Ti promisi che una volta avrei scritto un
episodio di successo per te, vero? Be', aspetta e vedrai».
«Non farlo troppo bello, Marty», sussurrò lei. «Sto per partire per Rio. Non voglio essere una star della
TV».
Lui fece un sorriso molto largo e spontaneo, dopo di che si chinò e la baciò sulla guancia.
Allora la limousine scivolò fuori dai cancelli e giù sulla strada del canyon attraverso le chiazze di sole e
fuori dalla nostra vista. Misi il braccio sulle spalle di Belinda, la sentii appoggiarsi delicatamente a me,
sentii la sua testa sulla mia guancia mentre guardava le finestre oscurate attraverso le quali non riuscivamo
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a vedere. Poi sollevò la mano come se avesse visto qualcuno, che chiaramente non c'era, e fece un cenno
di saluto.
La macchina era andata via. Allora lei si voltò, e la Belinda dei primi tempi, solo però con un'espressione
diver-sa sul viso, inaspettatamente mi guardò.
«Ehi, Jeremy, andiamo a fare quella cosa di Rio?», disse all'improvviso. «Cioè che vieni a Rio con noi?
Vado a chiamare Susan. Voglio dire che questo film è veramente, veramente entusiasmante, non è vero?
Ci andiamo!».
«Ci puoi scommettere, piccola mia», dissi io.
La vidi di colpo cambiata e poco mancò che si mettesse a danzare sul passo carraio, che facesse
schioccare le dita, che facesse oscillare le trecce.
«Dopo i due episodi con mamma e Marty siamo liberi!». E svanì nelle ombre della casa.
Quel pomeriggio, sul tardi, ci fu l'inevitabile conferenza stampa. Bisognava dare l'annuncio, non si fa
così? E lei doveva stare seduta in un cantuccio con G.G. accanto e fare una dichiarazione, prima delle
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