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    Quella volta finalmente ho avuto il coraggio. Fede mi
    aveva dato la forza. Questo era il segno della sua presenza,
    non gli oggetti che gli chiedevo di spostare o la luce
    che avrei voluto accendesse. Ha fatto molto di più, ha
    spostato me. Ha acceso la mia vita, mi ha donato un
    nuovo modo di pensare.
    "Federico, non abbandonarmi!"
    Un giorno sono andato a casa, ho preso la ricevuta
    che tenevo nel cassetto della scrivania e sono andato a
    ritirare la collana di Sophie. Poi ho fatto un biglietto aereo
    andata e ritorno - con ritorno aperto e data da definirsi
    - per andare a consegnarla.
    Dopo sono andato al lavoro e ho chiesto un mese di
    vacanza. Il direttore mi ha detto che non era il momento,
    che gli dispiaceva molto, che capiva il mio dolore, la
    mia situazione, ma che purtroppo non era possibile.
    Non è una cattiva persona, il direttore, anche lui è migliore
    di come la vita lo rende. Anche lui è schiacciato
    da una serie di cose. Aveva ragione: sicuramente non
    era il momento giusto per partire, ma il problema è che
    non c'è mai un momento giusto.
    La cosa che non ho mai sopportato in lui è il suo essere
    viscido in certe circostanze. Quando serve è ruffiano
    come il profumo di una crema abbronzante. È di
    quelli che ti fanno sentire subito amico e che ti riempiono
    di complimenti e affetto, ma tutto è talmente posticcio
    che basta sbagliare una volta e automaticamente
    da super amico diventi un nemico coglione. Lo
    stesso entusiasmo che ha mostrato nell'elogiarti lo utilizza
    per massacrarti e screditarti. In passato l'ho anche
    odiato, ma se fossi stato meno represso non avrei
    usato un'arma così mediocre. Spesso l'odio è solamente
    l'ombra di qualcos'altro. L'odio appartiene ad attimi
    di impotenza.
    Quel giorno alla mia richiesta ha detto di no.
    Ricordo che ho fatto un bel respiro e dopo un secondo
    ho deciso di prendermi ugualmente la vacanza.
    Mentre me ne andavo il direttore mi ha comunicato
    che se fossi partito avrei potuto prendermi anche tutto
    l'anno. Ormai l'avevo deluso, e per lui in un secondo
    era già cambiato tutto, era già in guerra. In quel momento,
    però, non mi spaventava niente.
    Sono uscito da quell'ufficio che avevo quasi trentatré
    anni, non riuscivo a comunicare con mio padre e mia sorella,
    avevo perso mia madre e il mio migliore amico,
    non ero in grado di avere una relazione sentimentale e
    nemmeno di capire cosa fare della mia vita, in banca
    avevo trecento euro ed ero appena stato licenziato... beh,
    non male.
    Eppure mi sentivo stranamente bene. Almeno in quel
    momento.
    Sono andato a portare la macchina all'officina di mio
    padre, per lasciarla lì, dicendogli che, se avesse trovato
    un cliente interessato, poteva venderla. Ho svuotato la
    macchina da tutte le cianfrusaglie e, aprendo il baule,
    ho trovato un'emozione lasciata lì a riposare da tempo:
    il maglione blu di Fede, lo stesso che adesso ho legato in
    vita. Era come la tazza e la cartolina. L'ho annusato nella
    speranza che avesse ancora il suo odore. C'era. Quanto
    mi sarebbe piaciuto trovare il modo di conservare
    quell'odore per sempre. Annusare una persona vale più
    di mille foto. Invece, come il dolore, pian piano sarebbe
    evaporato. Quante volte metto questo maglione. Mi
    protegge molto di più di qualsiasi altro. Anche se è un
    po' corto di maniche.
    Non ho mai capito se, lavandole, le cose si allargano o
    si restringono. Quando vado in un negozio e una cosa
    mi è piccola, la commessa mi dice che poi lavandola un
    paio di volte si lascia andare e si allarga un po'; se provo
    una cosa grande mi dice il contrario, che se la lavo si restringe.
    Che brave alcune commesse.
    Ho salutato mio padre e mia sorella dicendo che sarei
    andato via per un po', che mi prendevo una vacanza,
    per farla breve. Mi sono infilato il maglione di Federico
    e sono tornato a casa. Stavo iniziando una vera avventura,
    abbandonando tutto ciò che mi era familiare e conosciuto
    per entrare nell'ignoto. Finalmente sentivo di
    avere il coraggio e il desiderio di "buttarmi per cadere
    verso l'alto", come aveva detto lui una volta.
    Avevo il cuore eccitato, mi sentivo già più vivo. Il
    giorno dopo sono partito, alla ricerca di me.
    ***
    Capitolo 12.
    Indispensabile per lui.
    Prima di salire su un aereo guardo sempre il bigliettino
    con la lettera e il numero del mio posto. Non so perché,
    ma non riesco a memorizzarlo e devo rileggerlo continuamente
    finché non sono seduto. Non ho nel cervello
    la parte della memoria dedicata a quei bigliettini. Sull'aereo
    verso l'ignoto, comunque, ero seduto su un sedile
    che a sinistra dava sul corridoio; alla mia destra c'era
    un posto occupato da una donna di circa settant'anni,
    molto grassa. Prima di decollare la hostess le ha portato
    una prolunga per la cintura. Non ne avevo mai vista
    una. Inutile dire che il bracciolo di destra era impraticabile,
    non potevo appoggiarci il braccio perché c'era
    quello della signora, praticamente una mortadella con
    cinque wurstel attaccati all'estremità.
    Sull'aereo ero agitato. Sempre per via della paura di
    morire. La morte mi aveva sfiorato troppo da vicino ed
    era come se l'avessi vista un po'. Per la prima volta, infatti,
    avevo paura di volare, allora ho cercato di sdrammatizzare
    pensando a qualcosa che potesse farmi ridere.
    Pensavo a dei nani nudi che si rincorrevano su e giù
    per il corridoio.
    Alla fine per tranquillizzarmi mi sono detto che al limite,
    se l'aereo fosse caduto in mare, io mi sarei buttato
    sulla vecchiacanotto al mio fianco. Il volo è stato tranquillo.
    A parte i nani che correvano.
    Oltre il corridoio alla mia sinistra c'erano due ragazze.
    Una delle due ogni tanto piangeva. Anche se non la
    conoscevo, mi sarebbe piaciuto aiutarla, fare qualcosa
    per lei, alleggerirla da quel sentimento, forse perché
    anch'io ero pieno di sofferenza, di ansia, di paure. Insomma,
    eravamo colleghi nel dolore. Dalla disperazione
    delle sue lacrime ho immaginato che anche lei avesse
    perso qualcuno, magari un genitore. Ho capito più
    tardi perché stava male, quando la sua amica a un certo
    punto le ha detto: «Basta, non pensarci più, adesso
    devi pensare solo a divertirti e non a quello stronzo.
    Vedrai che nel villaggio ne incontrerai mille meglio di
    lui. E poi, sinceramente, ti sei liberata di un coglione.
    Fossi in te non sarei così dispiaciuta, ultimamente eri
    sempre triste. Credimi, è stata una fortuna che sia andata
    così...».
    Quella ragazza stava soffrendo perché era finita una
    storia d'amore. "Ma vaffanculo" ho pensato.
    In quel periodo ero razzista verso le persone che stavano
    male. Ero convinto che la mia sofferenza fosse vera,
    reale, mentre quelle d'amore, per esempio, non avessero
    il diritto di bagnare nemmeno un piede nel grande
    mare nero del dolore.
    Ho imparato più tardi, con il tempo, ad avere rispetto
    per ogni forma di dolore. Anche per quello di un bambino
    che perde il suo giocattolo. Ma in quel momento,
    sull'aereo, pensavo che la ragazza non si doveva permettere
    di piangere tutte le lacrime del mondo per una
    stronzata del genere. Cos'è quel dolore di fronte alla
    perdita di una persona?
    Avrei voluto dirle che era una stupida e che doveva
    ringraziare Dio se stava piangendo solo per quello.
    In quel periodo mi sentivo come lina delle poche persone
    che avesse veramente il diritto di soffrire. Io potevo
    piangere e non ci riuscivo, mentre quella rimbecillita
    versava litri di preziose lacrime per un idiota. Io non ne
    avevo, e lei invece le sprecava. [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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